Resilienza? No, Resistenza!

Nel numero 114 della rivista mensile l’Altra Medicina è presente un mio articolo dal titolo “Resilienza? No, Resistenza!”, nel quale presento alcune riflessioni sociali

La resistenza non si fa con le affermazioni ma con i comportamenti. Resistenza è avere piena fermezza in questi ultimi e rifiutare nella quotidianità le trasformazioni che ci sono imposte.

Di seguito il testo:

Resilienza? No, Resistenza!

Il termine “resilienza” è stato introdotto in italiano passando dall’inglese “resilience”, a sua volta derivante dal latino “resiliens -entis”, participio presente del verbo “resilire1: “saltare indietro”, “rimbalzare”. Da cui il significato, originariamente riservato alla fisica dei materiali, di “assorbire un colpo, senza subire deformazioni permanenti”. Successivamente il termine ha visto estendersi il suo significato a altri ambiti, tra cui quello psicologico, all’interno del quale è oggi diventato di moda.

Ma davvero un essere umano può – e soprattutto dovrebbe – limitarsi a “assorbire il colpo” e tornare semplicemente a essere quello di prima? Non sono forse le esperienze di vita che ci forgiano e non è piuttosto da esse che possiamo imparare a essere migliori? La comprensione e la successiva integrazione di un qualsiasi evento ci consentono di conoscere meglio noi stessi, di crescere e di apprendere. Come si può limitarsi a elogiare la supposta virtù di chi, indifferente a quanto avviene perfino a se stesso, invece che integrare e superare l’esperienza, ritorna allo stesso grado di consapevolezza che aveva prima?

Una cosa è la capacità di rimanere imperturbabili, cioè di “non essere turbati e saper conservare in ogni occasione il controllo e la tranquillità d’animo2, che è rara conquista di un riuscito lavoro di consapevolezza; ben altra è la caratteristica di ritornare alla condizione precedente a un evento, dal quale in tal modo si finisce, come un materiale appunto, col non apprendere niente. L’apprendimento è infatti, per definizione3, “l’acquisizione di nuovi modelli di comportamento, o la modifica di quelli precedenti”. Tornare alla condizione precedente comporta invece la perdita dell’opportunità di imparare dalla nostra storia e, di conseguenza, aumenta anche il rischio che la storia si ripeta.

Sempre ammesso naturalmente che, per un essere umano, sia davvero possibile tornare davvero alla condizione precedente a un trauma ricevuto. Più probabile è semmai che, mentre a livello cosciente si tenta di ignorare l’evento (rinunciando così alla possibilità di un suo vero superamento), la ferita permanga a livelli più inconsci e lì, proprio perché non riconosciuta, col tempo generi le più varie problematiche. Un po’ come avviene col noto esempio del nascondere la polvere sotto il tappeto invece che aspirarla via.

Per altro, la resilienza potrebbe anche forse essere auspicabile nei confronti di questioni di poco conto, ma come si può invece desiderarla in reazione a eventi epocali? Oggi, in tempi cosi bui in cui i governi minacciano e ricattano i propri concittadini, la risposta alle avversità subite non può e non dove essere la resilienza, bensì è necessaria la resistenza.

Ma cosa vuol dire resistenza? Il termine viene dal latino “resistere”, composto di “re”, che conferisce idea di opposizione e di “sistere4, da “stàre”, tratto dell’antica radice sanscrita “sthā”, col senso originario di “essere fermo, saldo”. Anche l’accezione psicologica di questa parola deriva dalla qualità di un materiale (che non cede a una forza esercitata su di esso), tuttavia in questo caso l’immagine non è quella di un passivo “rimbalzare indietro”, bensì quella offerta dalla migliore definizione che ne ho trovato: “opporsi saldamente nei confronti di qualcuno o di qualcosa, mantenendo saldamente la propria posizione”.5 Se poi aggiungiamo il significato associato alla Resistenza, con la maiuscola, diviene ancora più chiara l’immagine di un baluardo da difendere dall’assedio di forze ostili perché, se esso dovesse capitolare, la disfatta sarebbe totale e le scorrerie del nemico non avrebbero più freni.

Anche se credo che sia chiaro, esplicito che mi sto riferendo ai tentativi in corso di imporre una società basata sul credito sociale, di ispirazione cinese; alle leggi liberticide che si sono susseguite in questi ultimi due anni; come pure alle discriminazioni subite da cittadini che non hanno violato legge alcuna (ricordo che al momento, per gran parte della cittadinanza, riguardo alla vaccinazione non sussiste formalmente alcun obbligo), anche volendo prescindere dalla più che discutibile legittimità di quelle invece esistenti. Ciò, duole constatarlo, nel plauso di una maggioranza così spaventata da avere rinunciato a ogni capacità critica. Non è ad ogni modo questa la sede per argomentare queste evidenze a beneficio di chi dovesse averle scotomizzate. Qui mi rivolgo a chi ne è consapevole e a lui/lei intendo parlare di cosa è la resistenza.

Resistenza è non cedere, a ogni costo, perché se la difesa dei valori in cui si crede non è “a ogni costo” non può certo dirsi resistenza. L’opporre un’opinione non è resistenza; resistenza è solo il non cedere di un passo. In teoria è semplice, ma in pratica quale è il costo che ognuno è disposto a pagare? Lasciamo perdere chi per convinzione o mero conformismo è favorevole alle misure imposte dal governo e concentriamoci invece su chi, almeno di principio, dissente. Sappiamo che, per amor del quieto vivere, molti hanno ceduto alle primissime pressioni. Altri hanno ceduto ai primi ricatti e si sono adeguati per andare in vacanza o per potersi sedere al tavolo con gli amici al ristorante. Altri infine sono scesi a compromessi per ottenere la concessione del più elementare dei diritti: quello di lavorare. Altri hanno scelto di rifiutare ogni compromesso e hanno preferito perfino perdere il lavoro. Altri ancora hanno difeso il loro diritto a manifestare affrontando dei cannoni ad acqua (almeno per adesso, in Italia, “solo” ad acqua…).

Non si tratta di giudicare. Ognuno sa da sé su quali risorse può contare e cosa è disposto a sacrificare. La lotta è la stessa per tutti coloro che ne sono consapevoli, ma diverse sono le circostanze individuali. Eppure, al netto del rispetto della specifica situazione in cui ognuno si trova, qualcosa di generale può essere detto: resistenza non è scrivere dei post sui social comodamente seduti sul divano. Affrontare gli insulti dei tanti servi del pensiero dominante può far sentire forti, e talvolta può perfino essere utile, ma non è resistenza. La resistenza non si fa con le affermazioni ma con i comportamenti. Resistenza è avere piena fermezza in questi ultimi e rifiutare nella quotidianità le trasformazioni che ci vengono imposte.

La resistenza richiede sacrifici. La prima accezione del termine “sacrificio”6 è quella di “rito sacro”, da cui – poiché per essere tale un rito sacro non può certo essere qualcosa di semplice e banale – derivano i significati di “rinuncia”, “privazione” e “astinenza”. Se la difesa di un ideale sentito come sacro richiede di rinunciare alle consuete comodità, o di astenersi dalla vita sociale, o perfino dal lavoro, si tratta di veri e propri sacrifici, letteralmente di “azioni sacre” deliberatamente scelte, o eroicamente accettate, in difesa di un valore ritenuto superiore. Ognuno sa da sé l’importanza che attribuisce ai valori e se è, o meno, pronto a difenderli con dei sacrifici. La storia ci offre gli esempi di chi ha sostenuto le più aberranti delle leggi; di chi, sia pure senza convinzione, per comodità, ha collaborato da subito; di chi collaborazionista lo è diventato dopo un po’; di chi si è adeguato quando ha sentito troppo alto il prezzo di resistere; e infine di chi è stato disposto a difendere con la vita l’idea stessa di libertà.

Non so se esiste un Dio cui doverne renderne di conto, né confido molto nei tribunali degli uomini. Quello che però so per certo è che in ogni casa c’è uno specchio in cui dobbiamo guardarci e che, almeno in quel frangente, dobbiamo essere pienamente sinceri con noi stessi. Perciò, soli davanti allo specchio, non fingiamo di resistere, non crediamo neppure per un momento che resistere sia, o possa essere, comodo, sicuro o popolare. Nelle parole del premio Nobel per la pace Martin Luther King tratte dal discorso “Remaining Awake Through a Great Revolution7:

On some positions, cowardice asks the question, is it expedient? And then expedience comes along and asks the question, is it politic? Vanity asks the question, is it popular? Conscience asks the question, is it right? There comes a time when one must take the position that is neither safe nor politic nor popular, but he must do it because conscience tells him it is right.8

Si tratta infatti di una questione di coscienza, nella sua più alta accezione morale. Solo essa può fare la differenza tra un Galileo, che cede all’abiura per avere salva la vita, e un Giordano Bruno capace, pur di non tradire se stesso, di affrontare il rogo e perfino di rispondere al suo inquisitore: “Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell’ascoltarla9. Che il rogo sia reale, o che il prezzo richiesto sia la gogna mediatica e l’esclusione da gran parte della società, in entrambi i casi si tratta del sacrificio che la nostra coscienza ci indica come necessario per mantenerci integri nei confronti dei nostri valori più sacri.

Al contempo, si tratta però anche della più concreta delle opportunità per divenire a pieno titolo dei veri esseri umani. Chi è caduto nell’illusione di essere niente più che un corpo fisico, a fronte della vera o presunta minaccia alla sua sopravvivenza, non può che ritirarsi impaurito. Chi invece sente nel suo profondo, a prescindere dalle sue affermazioni e dall’appartenenza o meno a qualsiasi religione, di essere ben di più, sa dentro di sé che esistono valori ben più importanti della mera sopravvivenza. Che la si voglia o meno chiamare una dimensione spirituale, essa ha comunque una funzione trascendente, che dal semplice quieto vivere ci porta verso i nostri più alti ideali. Come non pensare ai versi di Dante, “Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e caunoscenza”? Ecco dunque l’occasione per mostrare, innanzitutto a noi stessi, che non abbiamo scordato il prezioso monito. Perciò, come degli alchimisti che trasformano il piombo in oro, sfruttiamo anche noi le circostanze infelici per “seguire virtù e conoscenza”. Da veri eroi della lotta all’oppressione, non accettiamo la propaganda di chi orwellianamente gioca con le parole (trasformando il loro significato nell’esatto opposto) e riappropriamoci della frase10 (quella sì realmente antifascista) del fiorentino Piero Calamandrei, “Ora e sempre Resistenza!”.

1https://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/resiliente/

7Passo tratto da un discorso tenuto alla National Cathedral di Washington, il 31 marzo 1968, quattro giorni prima di essere assassinato. https://web.archive.org/web/20060314095859/http://www.stanford.edu/group/King/publications/sermons/680331.000_Remaining_Awake.html

8In italiano: “Su alcune posizioni, la vigliaccheria pone la domanda, è conveniente? Poi la convenienza va oltre e domanda, è prudente? La vanità domanda, è popolare? La coscienza domanda, è giusto? Arriva un momento in cui si deve assumere una posizione che non è né sicura, né prudente, né popolare, ma si deve farlo perché la coscienza ci dice che giusto”

9Secondo le testimonianze (Lettera di Caspar Schoppea a Conrad Rittershausen del 17 febbraio 1600) l’8 febbraio del 1600, Giordano Bruno, costretto in ginocchio a ascoltare la sua sentenza, afferma: “Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam”.

10Nel 1947, Albert Kesselring, durante la guerra comandante delle forze tedesche in Italia, fu processato e condannato per avere dato l’ordinato al suo esercito di commettere numerosi eccidi sul territorio italiano. La condanna fu poi commutata in ergastolo ma dopo soli cinque anni, per motivi di salute, Kesselring fu liberato e, tornato in Germania, affermò di non essere affatto pentito e che anzi, gli italiani avrebbero dovuto erigergli un monumento per il bene che, secondo lui, aveva fatto loro. In risposta a tali affermazioni Piero Calamandrei scrisse la celebre epigrafe che termina con la frase da me citata. https://it.wikipedia.org/wiki/Piero_Calamandrei

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