Psicofarmaci, tra uso e abuso

Nel numero 110 della rivista mensile l’Altra Medicina è presente un mio articolo dal titolo Psicofarmaci, tra uso e abuso, nel quale presento alcuni dei modi in cui l’aspettativa influenza gli eventi.

Gli psicofarmaci sono a volte necessari ma troppo spesso se ne abusa, vediamo perché

Di seguito il testo:

Psicofarmaci, tra uso e abuso

In ambito di salute mentale la depressione è certamente tra i disturbi più preoccupanti, vista la sua ampia diffusione, la grande sofferenza provata dalle persone che ne sono affette e gli enormi costi sociali derivanti, come già esposto nella bella analisi effettuata da Gianluca Salcioli. Tutto ciò con la precisazione che non si sta parlando di un generico stato di umore depresso, anche esso chiamato nel linguaggio comune “depressione” e che in alcuni giorni può capitare a chiunque, bensì ci si sta riferendo a un disturbo psichiatrico, elencato nella sezione dei Disturbi Depressivi del Manuele Diagnostico Statistico (DSM 5) edito dall’American Psychiatric Association, tipicamente il Disturbo Depressivo Maggiore (DDM). La corretta diagnosi di DDM prevede il rispetto di specifici criteri temporali o sintomatici che individuano un disturbo grave e debilitante che talvolta (troppo spesso) ha esiti suicidari.

Il trattamento di elezione in caso sia dei disturbi dell’umore che dei disturbi d’ansia è – come è noto – la terapia farmacologica a base di SSRI (selective serotonin reuptake inhibitorinibitori selettivi della ricaptazione delle serotonina) o di SNRI (serotonin norepinephrine reuptake inhibitorinibitori della ricaptazione della serotonina e della noradrenalina). Purtroppo non sempre a tale trattamento è abbinata anche una psicoterapia, in special modo se la diagnosi è effettuata da un medico di base o da uno psichiatra dalla visione strettamente organicista (ovvero, che considera i disturbi mentali come il prodotto di fattori organici). Purtroppo però i dati sull’efficacia dei trattamenti attualmente in corso non sono incoraggianti, tanto che è stato coniato il termine Treatment-Resistant Depression (TRD) o, in italiano, depressione farmacoresistente. Sebbene ancora manchi una definizione universalmente accettata di depressione resistente, basandosi sul diffuso criterio che per parlare di TRD sia necessario il fallimento di almeno due trattamenti effettuati con antidepressivi di distinta classe farmacologica (Brown et al., 2019), una recente review (Zhdanava et al., 2021) ne stima la prevalenza al 30,9 %. Ovvero, si ritiene che circa un terzo dei trattamenti farmacologi per la depressione siano inefficaci.

A tale dato si potrebbe replicare che in un caso su due i farmaci sarebbero efficaci. Tuttavia, come afferma Irving Kirsch (2019), “analyses of the published and the unpublished clinical trial data are consistent in showing that most (if not all) of the benefits of antidepressants in the treatment of depression and anxiety are due to the placebo response, and the difference in improvement between drug and placebo is not clinically meaningful and may be due to breaking blind by both patients and clinicians”. Kirsch ritiene che sia i ricercatori che i soggetti potrebbero dedurre in quale condizione sperimentale si trovano dalla presenza, o assenza, degli effetti collaterali tipici dei farmaci in questione e conclude la sua analisi affermando che “other treatments (e.g., psychotherapy and physical exercise) produce the same benefits as antidepressants and do so without the side effects and health risks of the active drugs”.

In quanto psicologo, non medico e di conseguenza non abilitato alla prescrizione di farmaci, non posso vantare un’esperienza diretta nell’osservare l’efficacia o meno degli specifici farmaci, tuttavia – e ciò proprio in quanto psicologo – ben conosco il potere delle aspettative nell’influenzare il decorso di disturbi sia mentali che fisici. Inoltre, un aneddoto professionale a sostegno della tesi di Kirsch posso portarlo anche io. Riguarda un ragazzo giovane, che ho seguito in realtà solo per un breve percorso di sostegno psicologico che richiedeva per la separazione da una relazione sentimentale di lunga data. Alla seconda seduta mi riferisce che nel corso della settimana intercorsa dalla prima seduta si è sentito male due volte e il medico di base cui si è rivolto gli ha detto trattarsi di attacchi di panico e gli ha prescritto degli SSRI. Alla mia domanda su come si sente mi risponde che grazie ai farmaci adesso sta bene. Tuttavia li assumeva solo da due giorni ed è risaputo che i farmaci in questione hanno effetto dopo circa tre settimane. Naturalmente sul momento non gli ho detto niente, per non vanificare il beneficio che riteneva di avere dall’assunzione dei farmaci, e solo al termine del percorso conclusosi con l’accettazione della separazione, e quindi con l’ottenimento di una nuova stabilità, ho condiviso con lui suddetta informazione. Va pur detto che credendo di ottenere dei benefici immediati dal farmaco effettivamente li ha ottenuti, visto che nel periodo che l’ho seguito non si sono mai ripresentati episodi di panico, ma da cos’altro, se non da effetto placebo, p dipendere il beneficio riscontrato nelle prime settimane dal mio paziente?

Per un medico è certamente più semplice limitarsi a prescrivere un farmaco che ascoltare un paziente e comprendere le peculiarità della sua sofferenza, che ha sì similitudini con la sofferenza di altri pazienti ma non è uguale a quella di nessun altro. Non stupisce quindi che troppo spesso l’unica terapia proposta sia quella farmacologica. Molti pazienti vengono così convinti che la radice della loro problematica mentale sia esclusivamente organica e che loro non potevano farci alcunché per evitarlo né possono adesso fare alcunché per stare meglio. Non gli resta che attendere l’effetto di una qualche pillola miracolosa. Va pur detto che alcuni non desiderano di meglio. Seguire una psicoterapia, e il lavoro su di sé che essa comporta, è molto impegnativo: richiede il coraggio di mettersi in discussione; costringe a guardare aspetti di sé che si preferirebbe ignorare; comporta l’abbandonare il torpore del sentirsi impotenti e accuditi da altri più competenti di noi in favore del sapersi, almeno in parte, responsabili dei propri miglioramenti. Molti pazienti preferirebbero stendersi anestetizzati su un lettino e lasciare che un qualche bisturi psichico rimuovesse la loro sofferenza, lasciando però inalterate le dinamiche psichiche che ne sono state e ne sono causa. Chissà, forse (ma io non credo) sarebbe bello se ciò fosse possibile, ma il punto è che almeno ad oggi possibile non è: non esiste nessun bisturi psichico e il fallimento della psichiatria organicistica è sotto gli occhi di tutti.

Ammettiamo pure l’efficacia dei farmaci psichiatrici con i pazienti che qualche decennio fa sarebbero stati relegati (e legati…) in manicomio e che oggi – ci dicono – godono di una migliore qualità della vita, e sorvoliamo pure sul fatto che gran parte delle sofferenze di tali pazienti erano imputabili proprio al ricovero negli ospedali psichiatrici. Resta il fatto che non sono i pazienti che un tempo sarebbero stati ricoverati la maggior parte dei soggetti cui oggi viene prescritto un qualche psicofarmaco. Oggi, che si tratti di farmaci SSRI, come lo Zoloft, il Proxac, il Daparox (e tanti altri), da assumere per mesi o anche anni, o le “comode” benzodiazepine, come lo Xanax, il Valium, il Tavor (e tante altre), da assumere “alla bisogna”, la prescrizione viene fatta con preoccupante disinvoltura a chiunque stia attraversando un qualche momento difficile nella sua vita. Peccato che tra gli effetti collaterali più comuni degli SSRI figurino le disfunzioni sessuali e l’aumento del peso corporeo (Robert et al, 2003) e che le benzodiazepine possano indurre dipendenza e conseguentemente abuso (O’Brien, 2005); tutti fattori non certo di aiuto a recuperare un migliore stato dell’umore. Sia pure che nei pazienti psichiatrici gravi i rischi superino i benefici, possibile, ma è davvero così anche per il comune cittadino che sta solo attraversando un periodo difficile della sua vita?

In quanto psicologo difficilmente tratto la prima tipologia di pazienti, sul cui trattamento mi trattengo pertanto dall’esprimermi, limitandomi a riportare la letteratura a riguardo. Ritengo però che ben difficilmente sia giustificato il trattamento psicofarmacologico del comune cittadino alle prese con le normali difficoltà della vita. Anche perché etichettarlo come depresso, ansioso, o quello che sia, poco ci dice della reali dinamiche sottostanti alla sua sofferenza e perfino della sua specifica sofferenza. Scriveva Tolstoj, nell’incipit di Anna Karenina, che “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. Parafrasando, si potrebbe affermare che il comportamento osservato e/o riferito da più individui depressi si assomiglia molto (anedonia, autosvalutazione, alterazioni del sonno, alterazioni del peso o dell’appetito, faticabilità, pensieri di morte) ma ognuno di essi soffre in modo diverso. In che modo una persona si svaluta? Quali sono le sue proprie modalità di svalutarsi; quali i valori e gli obbiettivi nei confronti dei quali si sente inadeguata; quali i suoi specifici timori; quali le associazioni di pensiero collegate al sentimento; quali le risorse su cui può fare affidamento? Se questi e molti altri aspetti non sono esplorati, un intervento standardizzato e non adeguatamente personalizzato ha solo una remota possibilità di riuscita e, nei casi in cui il paziente comunque migliora, è più plausibile che sia migliorato malgrado il trattamento che non grazie a esso.

In lingua inglese si ricorre all’espressione molto ben riuscita che un intervento deve essere “tailor made”, fatto su misura. La Psicologia di Segnale fa sua questa indispensabile impostazione, cercando ogni volta di comprendere le peculiarità dell’individuo che ha di fronte, i suoi aspetti più apparenti ma anche quelli che si celano più in profondità e richiedono di essere fatti emergere per pianificare un intervento che sia realmente utile al paziente. La Psicologia di Segnale è consapevole dell’esistenza di dinamiche e processi psichici sia consci e consapevoli che inconsci. Particolare attenzione è posta alla comprensione del vissuto emotivo del paziente e al riconoscimento degli automatismi messi in atto in risposta a situazioni di difficoltà (meccanismi di difesa). L’obiettivo del lavoro psicologico è l’aumento della consapevolezza che il paziente ha di sé, delle proprie dinamiche, delle relazioni con gli altri e più in generale di ogni aspetto significativo della sua realtà psichica, favorendo per quanto possibile quelli positivi per il suo benessere e aumentando al contempo la capacità di metabolizzare e integrare al meglio le situazioni che non lo sono e che inevitabilmente fanno a volte parte dell’esistenza umana.

Si configurano due approcci tra loro antitetici: l’uno, farmacologico e standardizzato, che vede l’individuo come vittima passiva di un deficit nei neurotrasmettitori; l’altro, psicologico e personalizzato, che restituisce al paziente la dignità di soggetto attivo. Noi sappiamo quale approccio prediligere. Voi, quale preferite?

Bibliografia

Brown, S., Rittenbach, K., Cheung, S., McKean, G., MacMaster, F. P., & Clement, F. (2019). Current and Common Definitions of Treatment-Resistant Depression: Findings from a Systematic Review and Qualitative Interviews. The Canadian Journal of Psychiatry, 64(6), 380–387.

Kirsch, I. (2019). Placebo Effect in the Treatment of Depression and Anxiety. Frontiers in Psychiatry, 10, Article 407.

O’Brien, C. P. (2005). Benzodiazepine Use, Abuse, and Dependence. The Journal of Clinical Psychiatry, 66 (suppl. 2).

Robert, M., Hirschfeld, M. D. (2003). Long-Term Side Effects of SSRIs: Sexual Dysfunction and Weight Gain. The Journal of Clinical Psychiatry, 64 (suppl. 18).

Zhdanava, M., Pilon, D., Ghelerter, I., Chow, W., Joshi, K., Lefebvre, P., & Sheehan, J. J. (2021). The Prevalence and National Burden of Treatment-Resistant Depression and Major Depressive Disorder in the United States. The Journal of Clinical Psychiatry, 82 (2).

 

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