Accettarsi per non uniformarsi

Nel numero 124 della rivista mensile l’Altra Medicina è presente un mio articolo dal titolo “Accettarsi per non uniformarsi”, nel quale presento alcune riflessioni sociali

 La felicità passa dall’accettazione di sé, non dal tentativo di uniformarsi a dei riferimenti esterni.

Di seguito il testo:

Psicologia di Segnale: accettarsi per non uniformarsi

L’approccio di Segnale è centrato sulla persona. Ciò significa che l’attenzione all’individualità di ogni singola persona (esplicita nell’acronimo GIFT: Gradualità, Individualità, Flessibilità, Tono) è sempre presente. Vediamo insieme come si applica questo principio fondante alla dimensione psicologica.

Ognuno di noi ha caratteristiche a comune con gli altri e peculiarità che lo rendono unico. Per mediare tra questi due estremi si è naturalmente portati a ricorrere a delle categorie. In tal modo, aspetti non comuni a tutti, ma comunque sufficientemente simili a quelli di altre persone, acquisiscono un nome. Ad esempio, in ambito psichiatrico si possono formulare le diagnosi di: depressione, ansia, fobia, psicosi, e tante altre. Il DSM5, fin dal suo nome di Manuale Diagnostico Statistico, fa esplicito riferimento alla cosiddetta normalità statistica, ovvero alla frequenza maggiormente osservata di un atteggiamento, un comportamento o un modo di pensare, assunto a norma di riferimento. Discostarsene oltre una certa misura è considerato per definizione anormale e talvolta costituisce uno dei criteri necessari per effettuare diagnosi di una specifica psicopatologia. Vediamo da dove deriva tale convinzione.

Il termine “norma” è mutuato senza variazioni di forma dal latino, dove tuttavia significa “squadra”, ovvero strumento adoperato per tracciare misure e rapporti di linee a angoli. Da ciò deriva “normale”, ovvero perpendicolare alla norma, che per estensione diviene conforme alla norma, sia con le accezioni di “diffuso”, “consueto” che quelle di “regolare”, “corretto”, da cui si giunge al concetto di conforme alle regole o alle leggi. Tutti significati che, ad eccezione dell’originale “squadra”, oggi convivono e a volte si confondono, oltre che nella lingua, anche nella nostra quotidianità. Probabilmente perché l’idea che il comportamento di una maggioranza sia corretto si radica in qualcosa di ancor più profondo del linguaggio. Infatti la tendenza a conformarsi a idee, gusti, atteggiamenti, pensieri e comportamenti della maggioranza dei membri del gruppo di riferimento è universalmente osservabile, non solo negli esseri umani di tutte le società ma anche (nei limiti di ciò che possiamo osservare) negli animali e nelle piante, e un’analoga tendenza alla conformità si ritrova perfino nelle caratteristiche fisiche degli stessi.

Fu Sir Francis Galton (cugino di Charles Darwin) a rendersi conto che la funzione individuata da Abraham de Moivre (e resa celebre da Carl Friedrich Gauss, in onore del quale si chiama gaussiana) oltre a descrivere la diffusione di errori casuali si presta a rappresentare la distribuzione dei più svariati fenomeni. In statistica la caratteristica forma a campana della funzione gaussiana è conosciuta anche come “distribuzione normale”. Il nome “normale” deriva dalla constatazione che i valori di molti fenomeni fisici, biologici e comportamentali si osservano con frequenze più elevate nei valori più prossimi alla media (µ). Ogni specifico fenomeno ha un suo indice di variabilità detto deviazione standard (σ) e la distribuzione normale ci dice che circa il 68% dei casi rientra nell’intervallo [µ–σ, µ+σ], circa il 95% nell’intervallo [µ−2σ, µ+2σ], circa il 99,7% nell’intervallo [µ−3σ, µ+3σ ]. Naturalmente nella realtà è raramente osservabile una perfetta aderenza a questa distribuzione teorica che tuttavia costituisce la migliore approssimazione possibile per molti fenomeni (stando ai teoremi del limite centrale anche per quelli la cui natura non comporta valori continui ma discreti).

Ad esempio, se l’altezza media osservata nei diciottenni italiani maschi fosse di 175 cm, con deviazione standard uguale a 7 cm, la teoria ci dice che circa il 68% dei ragazzi avrebbe un’altezza compresa tra 168 e 182 cm; che solo un 5% avrebbe altezza inferiore a 161cm o superiore a 189 cm; mentre non più di un complessivo 0,3% supererebbe i 196 cm o avrebbe altezza inferiore a 156 cm. Il che probabilmente approssimerebbe in modo adeguato la realtà. Similmente sono moltissimi i fenomeni fisici e biologici ad essere adeguatamene approssimati da questa distribuzione, la cui peculiarità è la tendenza dei fenomeni, o degli individui, a conformarsi a un valore medio. Tendenza spiegata dalla teoria evoluzionista sulla base del fatto che il valore medio sarebbe quello che meglio si adatta allo specifico ambiente ed è pertanto il più diffuso, con piccole differenze. Mentre i cosiddetti outlier, ovvero i valori fortemente discostanti, sarebbero mantenuti in piccola percentuale nella popolazione al fine di proteggere la specie da repentini cambiamenti ambientali che, rendendo il valore medio non più adatto, rischierebbero di provocarne l’estinzione se essa non disponesse di alcuni individui le cui diverse caratteristiche potrebbero essere in grado di adattarsi.

La tendenza a conformarsi al valore medio non si ferma ai tratti fisici, la si ritrova bensì anche nei più vari comportamenti di animali e esseri umani, sia in quelli istintuali che in quelli maggiormente intenzionali. Che si tratti del valore medio delle calorie giornaliere ingerite, delle ore settimanali di movimento fisico, del numero di libri letti mensilmente, o delle trasgressioni alle leggi nel corso di un’intera vita, in tutti questi casi e in moltissimi altri è possibile osservare che la maggior parte della popolazione in esame segue una tendenza dalla quale solo una piccola parte di individui si discosta ampiamente. Anche per quanto riguarda i comportamenti le discipline scientifiche che se ne occupano – rispettivamente l’etologia per lo studio gli animali e la psicologia evoluzionistica per lo studio dell’uomo – ci dicono che la diffusione di alcune tendenze è la più funzionale a quella che viene chiamata fitness (il potenziale di sopravvivenza e riproduzione) dei singoli individui. Pur essendo in questi casi la questione un po’ più complessa.

c Anche se oggi tali posizioni sono ufficialmente superate non si può purtroppo dire altrettanto di alcuni dei perniciosi assunti su cui si basano.

Attribuire valore morale alla presunta validità delle idee espresse dalla maggioranza rischia facilmente di far perdere di vista che, ad esempio, in un’ipotetica società la cui larga maggioranza avesse un attrazione per i bambini, la pedofilia sarebbe considerata normale e chi provasse disgusto all’idea potrebbe perfino essere visto come anormale, nell’accezione di non sano. Una simile perversa visione sociale potrebbe essere raggiunta per mezzo di una graduale e casuale mutazione spontanea dei comportamenti della maggioranza ma – ciò che è ancor più pericoloso – potrebbe anche essere guidata da chi volesse manipolare nelle masse la percezione di ciò che è normale. Infatti, col passaggio dalle piccole comunità (nelle quali la percezione di normalità era in gran parte affidata ai valori tradizionali e alla diretta conoscenza dei concittadini) alla società globalizzata, la costruzione della norma di riferimento è oggi in gran parte formata dai social e dai grandi media che, amplificando la reale diffusione di una tendenza, possono farla credere più diffusa di quanto effettivamente sia. Falsare la percezione di diffusione di una tendenza comporta che essa sarà imitata da alcune persone che diversamente non lo avrebbero mai fatto poiché, come abbiamo visto, il concetto stesso di normalità confonde in sé le idee di diffusione e di consuetudine con quella di riferimento per le azioni.

Si può facilmente comprendere cosa tali dinamiche comportino a livello sociale (io stesso ne ho scritto in vari articoli apparsi su L’Altra Medicina). Meno intuibile è in che modo condizionino anche la felicità e la stessa salute mentale dei singoli individui. Per capirlo occorre partire dal concetto di “sé”, ovvero dal modo in cui ognuno di noi vede se stesso. Si deve innanzitutto distinguere tra quelli che sono stati chiamati “sé reale”, “sé percepito” e “sé ideale; ovvero ciò che effettivamente siamo, ciò che riteniamo di essere e come vorremmo essere. La propria felicità deriva dal rapporto tra queste idee di se stessi, che raramente coincidono. Se si percepisce se stessi simili al proprio ideale di sé l’autostima è alta e conseguentemente se ne è soddisfatti. Al contempo però se il sé percepito si discosta molto dal sé reale, ovvero se ci si illude di essere come si desidera, la sensazione di soddisfazione è precaria poiché la propria autopercezione può essere smentita dal confronto con la realtà. I cosiddetti meccanismi di difesa dell’io inconsciamente tentano di proteggerci da tale rischio, al prezzo però di importanti conflitti interni e esterni, che a loro volta comportano sofferenza. Se viceversa il proprio sé percepito si discosta molto dal proprio ideale prevale la sensazione di frustrazione, o di vero e proprio sconforto. Talvolta tale divario è frutto di una svalutazione di sé che, in presenza di un sé reale non così dissimile dall’ideale, ne falsa la percezione provocando infelicità. Più spesso però il divario tra il sé percepito e quello ideale è causato dall’irrealizzabilità, o incoerenza, di quest’ultimo.

Torniamo quindi all’influenza di quanto è ritenuto normale sulla costruzione del proprio ideale. La moderna società liquida, come è stata ben definita da Zygmunt Bauman, comporta incertezza esistenziale e riferimenti che, mutando rapidamente, costringono l’individuo ad aggiornarli, nel tentativo spesso vano di conciliare istanze divergenti. Si finisce col rischiare di credere di doversi conformare ma che al contempo ci sia richiesta originalità; di dover essere rispettosi ma anche ironici; che siano necessaria straordinarie abilità, da conquistare però in apparenza senza sforzo; che la tolleranza e l’inclusività siano valori imprescindibili, ma non sempre. Inoltre si ammirano nei social persone con distinte qualità, dimenticando però che ognuna di esse affianca a alcuni pregi anche dei difetti. Così si finisce col credere di dover essere sempre: belli, sorridenti, eleganti, sportivi, brillanti, colti, intelligenti, informati su tutto, creativi, di successo, dalla parte dei più deboli, generosi, sensibili, con grande manualità, in grado di padroneggiare tutti talenti, trasgressivi ma sempre rispettosi anche se magari con un po’ di quell’aria maledetta che ha sempre il suo fascino… Nell’insieme si tratta chiaramente di un obiettivo che, anche quando non è palesemente incoerente, potrebbe forse essere alla portata di un superuomo, non a quella di quell’uomo comune, anche esso valore di riferimento, che proponendoselo si auto condanna a infelicità certa.

Inoltre, al di là della validità o meno di un ideale, proporsi di adottarlo perché alla moda comporta un rischio che raramente viene contemplato. Un’uniforme, perlopiù a taglia unica, veste bene alcuni ma è certamente scomoda per altri. Allo stesso modo alcuni trovano estremamente gratificante fare free climbing ad alta quota, mentre altri considerano terrificante anche solo l’idea. Oppure c’è chi ritiene rilassante andare a pesca e chi invece lo reputa noioso. Un vecchio proverbio toscano recita che “le querce non fanno i limoni”, ovvero che sia necessario conoscere e rispettare la propria natura, perché aspettarsi frutti non conformi a ciò che si è non può che condurre all’infelicità. Per restare in tema di detti popolari si dice anche “se la vita ti offre limoni, allora fatti una bella limonata”, cioè che ha più senso sfruttare quello che si ha piuttosto che rammaricarsi per ciò che non si ha, o non si è.

Infine, molti avranno almeno sentito parlare della rappresentazione grafica della gerarchia dei bisogni umani chiamata “Piramide di Maslow”, dal nome dello psicologo che l’ha descritta. Alla base si trovano i bisogni fisiologici e di sicurezza, seguiti dal bisogno sociale di appartenenza, da quello di autostima e infine dal bisogno di autorealizzazione. Una volta che le necessità primarie sono soddisfatte, conformarsi all’ideale di normalità può essere funzionale ad appagare il bisogno di appartenenza e può perfino essere in parte utile ad ottenere la gratificazione necessaria per la propria autostima, ma che dire dell’autorealizzazione? Come si può sentirsi realizzati seguendo un copione standardizzato invece che, come si sarebbe detto nel mondo antico, il proprio daimon?

Ecco perché la felicità, l’armonia, la stessa salute mentale, richiedono come presupposto l’accettazione di se stessi e della realtà. Che sia chiaro però: accettarsi non è sinonimo di rassegnarsi. Anche se troppo spesso i due termini sono erroneamente confusi. Si rassegnano le armi, o le dimissioni, pur discordando ci si rassegna al volere della maggioranza e con ciò ci si arrende e si rinuncia a portare avanti i propri intenti. Viceversa si accetta un incarico, un regalo o una proposta, vi si acconsente, la si accoglie. Anche etimologicamente, “ad” ha valore di intenzione, e “cepere”, da “capere”, significa “prendere”. Rassegnarsi è rinunciare ai propri desideri. L’accettazione getta invece le fondamenta necessarie alla realizzazione di qualsiasi cosa miri ad essere più che una mera fantasticheria. Infatti, per permetterci di non accettare qualcosa che in fondo si sente essere reale devono intervenire i meccanismi di difesa nevrotici della rimozione o della negazione, o quelli psicotici del diniego e della distorsione della realtà, che costituiscono i principali ostacoli alla realizzazione dei propri desideri. L’idea che per concretizzare i propri sogni sia necessario prendere atto della situazione è contenuta nelle stesse accezioni del verbo “realizzare” che, oltre a “rendere reale”, significa anche “comprendere chiaramente”, “rendersi conto di”. Diversamente non resta che rassegnarsi a vivere in un proprio mondo di fantasticherie o adattarsi a indossare l’uniforme che ci viene proposta. Per non uniformarsi e riuscire a essere veramente se stessi è innanzitutto necessario accettarsi.

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